Dovreste venire un sabato pomeriggio in maneggio o fermarvi sulla panchina di un parco ad osservare come le persone si muovono spinte dal desiderio di entrare in contatto con gli animali. Che si tratti di cavalli, capre o cani, un’attenta e sensibile osservazione vi farebbe notare, come ciascuno di noi, spinto dal desiderio della vicinanza e dell’unione, cancelli completamente dalla sua mente l’idea di avere di fronte un altro individuo.
Insomma siamo tutti attenti a difendere il nostro spazio personale, a proteggere il paese dall’invasione degli immigrati, le nostre case dalla violazione dei ladri, le nostre famiglie dalla curiosità dei vicini; prestiamo molta attenzione a etichettare i nostri oggetti per impedire che altri li usino ma quando si tratta di ottenere il soddisfacimento dei propri bisogni, tutto d’un tratto questa sensibilità, nei confronti altrui, scompare.
Così ecco papà con bambino in braccio, passeggino quattro ruote motrici e mamma con outfit da cowgirl, avvicinarsi al tondino, dove il cavallo pascola placidamente, e allungargli le mani sul muso, senza preavviso.
Io li guardo dalla mia panchina, tentando di controllare il mio istinto ad intervenire e pazientemente aspetto di cogliere, nella famiglia in visita, un interesse a comprendere, se il cavallo in questione, abbia o meno il desiderio di essere sprimacciato come un cuscino.
Perche il cavallo, il cane, la capra rispondono a quell’invasione del loro corpo, sempre. Il problema è che noi non ce ne accorgiamo. Li guardiamo, senza vederli; e questo accade anche tra esseri umani.
La prossemica
Il termine inglese proxemics, derivato di proximity, “prossimità”, è stato introdotto dall’antropologo americano E.T. Hall negli anni Sessanta del 20° secolo per indicare lo studio dello spazio umano e della distanza interpersonale nella loro natura di segno. La prossemica indaga il significato che viene assunto, nel comportamento sociale dell’uomo, dalla distanza che questi interpone tra sé e gli altri, tra sé e gli oggetti, e, più in generale, il valore che viene attribuito da gruppi culturalmente o storicamente diversi al modo di porsi nello spazio e di organizzarlo, su cui influiscono elementi di carattere etnologico e psicosociologico. (Treccani- Prossemica Universo del corpo di Michele Bracco)
Per farla breve, la prossemica è un vero e proprio canale di comunicazione che si manifesta attraverso il corpo e la sua posizione nello spazio, rispetto ad altri individui e/o oggetti.
Ciascuno di noi attribuisce a questa distanza un differente valore e significato, ma ciò che è certo, è che la distanza è direttamente proporzionale al livello di conoscenza e intimità che si ha con l’altro. Ciascuno di noi è dotato di uno spazio intimo, di uno spazio personale, di una zona sociale e di una zona pubblica.
Allora mi domando come può accadere che quando ci avviciniamo a qualcuno che non conosciamo, uomo cavallo, cane o capra che sia; spinti dal nostro bisogno di “incontro”, può capitare di violare lo spazio intimo dell’altro ignorando completamente i messaggi fisici di allarme, rifiuto o desiderio di distanza che quello ci manda?
Probabilmente, quello che accade di fronte al desiderio di ottenere dal contatto una sensazione piacevole, è di cadere in un cieco egocentrismo.
Io ti vedo
Stare con i cavalli è un ottimo allenamento contro questo tipo di cecità. I cavalli comunicano attraverso il canale non verbale; stare con loro ci da la misura della nostra sensibilità verso questo tipo di comunicazione.
Il mio compito come coach è di mediare l’avvicinamento tra uomo e cavallo per aiutare le persone a osservare, decodificare e rispettare la comunicazione dell’altro.
Comunicare con i cavalli e metterci in ascolto dei loro bisogni ci permette di conoscere noi stessi molto più profondamente.
Conoscere noi stessi, la nostra sensibilità, i nostri limiti, i nostri desideri, il nostro disagio ci permette di imparare a dare attenzione al nostro interlocutore, possiamo imparare a vederlo nel senso più profondo:
“Io ti vedo”, credo a ciò che i sensi mi manifestano; vedo che tu esisti, che io non sono l’universo intero, come istintivamente sono portato a credere. E dunque ti rispetto, cerco di trovare con te un’armonia accettandoti per quello che sei. Non tento di trasformarti in qualcosa di simile a me, ma vengo a incontrarti nel tuo territorio.” (Luca Alvino)
Solo da questo incontro può nascere un legame.
Il legame
Chi ha visto Avatar forse ricorda che Tsaheylu è una parola che nella lingua dei Na’Vi, gli abitanti di Pandora, significa legame.
Si tratta di una connessione neurale fra due creature che avviene quando vengono collegate le “code”, una sorta di prolungamento che parte dal cervello e mette fisicamente in contatto le terminazione nervose. La connessione è fisica, biologica e permette un legame stabile e visibile che può nascere esclusivamente dal rispetto dell’altro.
Questo legame è così forte che permette di condividere emozioni, sensazioni e intenzioni concedendo all’altro, tuttavia, la libertà di essere se stesso e di avvicinarsi, rispettando i propri tempi.
Credo, che a pensarci bene, questo tipo di legame soddisfarebbe molto di più quel nostro bisogno. Saremmo ancora più appagati dal sapere che l’altro ci resta accanto, perché sceglie di farlo: attraversare tutti gli spazi prossemici insieme, attendendo di essere via via pronti al passo successivo, nella consapevolezza di potersi allontanare nuovamente, quando è troppo.
In questo modo si costruiscono relazioni profonde, inter e intraspecifiche, guardandosi prima con gli occhi e poi con il cuore. Provare per credere.